Cappella di Missione
La Cappella di Missione, situata in aperta campagna sulle sponde di un corso d'acqua alimentato, da un ricco giacimento di risorgive, rappresenta una significativa testimonianza dei primi insediamenti in territorio villafrancahese, (l'antico Borgo Soave) ed è sicuramente il complesso di maggior interesse artistico di Villafranca, la cui fondazione risale all'età romano-cristiana. La Chiesa, sede di un importante ciclo di affreschi d'incomparabile bellezza, databili intorno al 1430 e in gran parte attribuiti all'opera di Aimone Duce - Dux Aimo - è stata di recente impreziosita - grazie ad un consistente contributo della Fondazione San Paolo di Torino - da un prestigioso intervento di restauro.
L'interno della costruzione, a navata unica, è divisa in due campate: nella prima le pareti e la volta non sono decorate, ma rifinite con un intonaco bianco, nella seconda invece tutte le superfici sono state dipinte. Gli affreschi delle pareti sono ripartiti in più registri: in quelli inferiori, nelle pareti laterali sono raffigurate immagini di santi, in quelli superiori sono dipinte "Le Virtù Teologali" e "I Peccati Capitali" nella parete sinistra, una "Madonna con Bambino e Santi" (lunetta) sulla parete destra; sulla parete di fondo troviamo in basso la "Deposizione", due santi e la "Madonna del latte", al di sopra "L'Annunciazione".
Lettura iconografica delle immagini
Il percorso che proponiamo è una lettura, ad un livello molto semplice, degli elementi principali del ricchissimo materiale iconografico presente nel ciclo di affreschi della cappella di Missione.
Ci soffermeremo in modo particolare sulla parte del ciclo di affreschi, opera di Dux Aimo, datati intorno al 1430.
La collocazione del ciclo va fatta nell'ambito del grande filone pittorico del gotico internazionale e facciamo notare soprattutto l'influenza e l'interdipendenza con la contemporanea pittura lombarda e gli innegabili collegamenti con la pittura d'oltralpe ed in particolare della Borgogna e della Provenza.
L'ultima annotazione, di carattere generale, riguarda la nota questione della supposta diversità di mani che avrebbero lavorato sull'affresco.
In merito non siamo in grado certamente di esprimere giudizi. Ci limitiamo soltanto a sottolineare come, sia nella definizione delle fisionomie e dei volti, sia nel panneggio dei personaggi siano molto evidenti due modi e due tecniche espressive differenti, ci piace però pensare che questo sia conseguenza della bravura e della capacità dell'autore di rendere in modo così evidente la diversità degli stati d'animo e delle situazioni dei personaggi.
La cappella, nel suo insieme, non presenta solo il ciclo di affreschi firmato da Aimone Duce ma è arricchita da altre opere all'esterno e all'interno dell'edificio che sono databili almeno in parte grazie ad un cartiglio collocato alla base del costolone sinistro della volta dell'abside che porta scritta la data del 1474 per quanto riguarda gli affreschi della volta e della lunetta di destra il cui autore è sconosciuto.
Per ciò che riguarda le pitture esterne, che si trovano in avanzato stato di deterioramento la data più probabile della loro composizione è ritenuta la prima metà del '500. Si tratta di una scena raffigurante l’Annunciazione che sovrasta la porta d'ingresso e di due Santi (ormai quasi scomparsi) di cui uno è probabilmente San Rocco collocati a sinistra e destra della porta. Caratteristica è poi la gigantesca figura di San Cristoforo (ormai appena visibile) sulla parete sud dell'edificio.
Tornando al ciclo di affreschi di Aimone Duce essi occupano la parete di fondo che è composta da due scene:
- una annunciazione sovrastante
- una deposizione o meglio ancora un compianto sul Cristo morto nella scena inferiore.
La lunetta della parete di sinistra di sinistra occupata dalla curiosa e raffinata rappresentazione della processione delle virtù e dei vizi impersonati da figure femminili che sono intente all'attività che le caratterizza e sono (i vizi) diretti alla bocca dell’inferno (rappresentato da un grande pesce nella bocca del quale si intravedono i dannati) cavalcando animali che sono essi stessi simboli del peccato descritto e sospinte e accompagnate da demoni mostruosi.
Tutta la fascia bassa dell'affresco è occupato da una serie di dodici santi che sono (da destra a sinistra) :
- San Michele Arcangelo
- Sant’ Andrea Apostolo
- San Bernardo
- Sant’Antonio Abate
- San Costanzo
- La Beata Margherita di Lovanio (?)
- San Chiaffredo
- San Claudio Vescovo di Besançon (m.581)
- Martirio di San Sebastiano
- Santa Caterina
- San Valeriano
- San Giovanni Battista
La restante parte dell'opera, della quale non conosciamo l'autore ma il committente che ci ha lasciato il suo nome nel cartiglio già citato (Giulio de Giuli) occupa la volta con la raffigurazione dei quattro Evangelisti accompagnati dai rispettivi simboli e da una o più arche di libri.
La lunetta di destra è occupata dalla scena in cui il committente è presentato alla vergine (con il Bambino in braccio) da San Giulio Vescovo suo protettore. A destra della Vergine sta una figura di Santo militare non identificabile.
Soprattutto nella parte dell'opera eseguita da Aimone Duce c'è un ricchissimo repertorio di simbologie bibliche e catechetiche che meritano un approfondimento di studi e che sono rivelatori della personalità e della cultura del suo esecutore e probabilmente anche dei committenti.
Storia ed architettura
La Cappella di Missione è stata affrescata all'interno e all'esterno tra i secoli quindicesimo e sedicesimo. La chiesa all'interno è a navata unica, divisa in due campate: nella prima le pareti e la volta, in origine, non erano decorate ma rifinite con un intonaco bianco, nella seconda invece tutte le superfici sono state dipinte.
Gli affreschi delle pareti sono ripartiti in più registri: in quelli inferiori delle pareti laterali sono raffigurate immagini di santi, in quelli superiori sono dipinte"Le Virtù Teologali" e "I Peccati Capitali" nella parete sinistra, una "Madonna con Bambino e Santi" (lunetta) sulla parete destra; sulla parete di fondo troviamo in basso la "Deposizione", due santi e la "Madonna del latte", al di sopra "L'Annunciazione".
I dipinti sono stati eseguiti nel '400 ed alcuni di essi sono certamente opera di Dux Aimo, in quanto firmati, ma purtroppo non datati. Invece, viene ipotizzata, dalla Di Macco, la data 1429 per l'opera di un pittore anonimo al quale si devono la lunetta della parete destra e gli evangelisti della volta.
I dipinti sono in discreto stato di conservazione nelle parti più protette e cioè oltre i due metri di altezza, nei registri inferiori strati preparatori e pellicola pittorica sono disgregati sia per cause chimico-fisiche che per atti vandalici. In queste zone la policromia è molto abrasa, con presenza di efflorescenze saline in superficie, sulle pareti laterali, fino ad 1 metro di altezza si è persa quasi ogni traccia di decorazione. La policromia è offuscata da uno strato di polvere sedimentata ed inoltre si nota la presenza di alcune parti ridipinte.
Gli intonaci della prima campata sono stati ridipinti in due fasi diverse. Nella più antica è stata stesa una colorazione giallo avorio e sono state dipinte sulle pareti laterali due finestre, in modo piuttosto semplice, con un colore rosso mattone; con questo colore sono state anche accentuate le nervature della crociera, forse ad imitazione delle chiese decorate in arenaria e cotto. Nell'intervento più recente tutte le superfici erano state dipinte di azzurro scuro con le nervature della volta gialle.
Tutti gli intonaci, affrescati e non, sono percorsi da larghe crepe strutturali, stuccate grossolanamente in precedenti interventi di manutenzione.
All'esterno, la facciata è interamente intonacata mentre resta affrescata solo la porzione al di sopra della porta dove è raffigurata l'annunciazione e altri frammenti di santi. È possibile che in origine la restante superficie fosse a mattoni a vista come le pareti laterali, infatti l'intonaco si va a sovrapporre all'affresco. Il dipinto non è molto sporco ma visibilmente danneggiato dagli agenti atmosferici e da atti vandalici; l'intonaco e la pellicola pittorica presentano difetti di adesione e coesione che hanno prodotto molti distacchi e lacune; in alcune zone, il dipinto è coperto da vecchie stuccature e ridipinture di colore rosso. L'affresco della Annunciazione è ancora leggibile mentre dei frammenti si riconoscono soltanto poche tracce di un viso. Per questo dipinto si è ipotizzata la data del 1530 e l'attribuzione a Jacobino (Giacobino) Longo.
Sulla parete laterale destra è affrescato un "San Cristoforo", ormai molto lacunoso, infatti, circa il 50% dell'intonaco e della pellicola pittorica sono caduti; le lacune seguono l'andamento e la forma dei mattoni pertanto si può dedurre che il degrado è stato causato dal rigonfiamento dei laterizi, provocato dalla spinta dell'umidità di risalita dal terreno e dai sali disciolti in essa, che si cristallizzano in superficie. Le parti di affresco ancora esistenti sembrano in discreto stato di conservazione, come pure quelli, a motivi geometrici, attorno alla finestra e sotto lo spiovente del tetto.
Casaforte di Marchierù (Marcerù)
IL CASTELLO DI MARCHIERU’
Fra Airasca e Saluzzo, nell’alta valle del Po, in borgata Soave del Comune di Villafranca Piemonte, con lo sfondo del Monviso si innalza il castello di Marchierù, che tanti ricordi legano alla Casa Sabauda.
Del nome di Marchierù si fa menzione la prima volta in un documento del 1220, per una donazione di beni all’Abbazia di S.Maria di Cavour.
I luoghi ove sorgevano Borgo Soave e Marchierù furono sempre ambiti, e la stessa etimologia del nome si ricollega a “marcio”, bagnato, ossia altamente irriguo; siamo infatti nella zona dei “fontanili” (in piemontese “nasur”), luoghi ove l’acqua delle falde affiora alla superficie formando polle limpide e pulite che si mantengono ad una temperatura costante di 10/15 gradi in ogni stagione dell’anno, consentendo un’irrigazione temperata continua.
Le altre ipotesi sull’origine del nome di Marchierù appaiono meno attendibili. Per alcuni potrebbe derivare da “marca” quale terra di confine con il Marchesato di Saluzzo, come in effetti fu, ma certo non esistettero mai dei “marchesi di Marchierù”. Leggendaria appare la derivazione dall’antico francese “macheron” cioè mucchio di macerie, esito dell’invasione di Federico Barbarossa.
I primi signori di Marchierù furono i Signori di Barge ma, con atto dell’ 11 marzo 1251, tutti i loro beni in Soave furono venduti a Tommaso II di Savoia. Gli Acaja, con castello residenziale a Villafranca, conservarono Marchierù per i loro discendenti: così Filippo d’Acaja lo costituì in dote alla figlia naturale Francesca, andata in sposa ad Antonio Bocchiardi. Da questi il feudo passò ai cugini Petitti , figli di Beatricina d’Acaja, che lo mantennero fino al 1482.
Nel 1483 Marchierù ritornò a Casa Savoia, e fu assegnato per metà in feudo a Filiberto, del ramo illegittimo degli Acaja-Racconigi, e per metà a sua sorella Claudia, sposa di Besso Ferrero marchese di Masserano.
Si trattò tuttavia di breve signoria, giacchè già nel 1640 il castello e le sue terre passavano ai conti Solaro del Macello tramite i Solaro di Moretta alla cui famiglia apparteneva Ottavia, la sposa di Filiberto d’Acaja.
Più tardi, per successione, il castello passò ai discendenti Cacherano di Osasco ed ai Filippi di Baldissero finchè nel 1827 il conte Vittorio Ignazio Filippi di Baldissero riscattò l’intera proprietà (che verso il 1750 era stata costituita in Commenda del Sovrano Militare Ordine di Malta) dal cugino Policarpo Cacherano di Osasco.
Quella dei Filippi era antichissima famiglia, risalente ad Alineo, visconte d’Auriate nell’ 878, una delle più illustri di Cavallermaggiore; dai più antichi tempi rivestirono innumerevoli magistrature civiche e furono nel 1583 Decurioni di Torino.
A tale famiglia appartenne Vittorio Antonio, nel 1736 aiutante di Campo del Principe Eugenio di Savoia nell’assedio di Vienna, Feldmaresciallo d’Austria, Comandante Generale della Cavalleria Imperiale e comandante dell’Armata d’Ungheria.
Chi portò all’antico splendore il feudo di Marchierù fu Carlo Alberto Filippi di Baldissero, porta stendardo di Genova Cavalleria nella prima guerra d’Indipendenza, figlioccio e paggio di Re Carlo Alberto di Savoia, membro della Regia Accademia di Agricoltura di Torino, artefice di importanti innovazioni proprio in campo agricolo emulo del cugino ed amico di Camillo Benso di Cavour che spesso soggiornò a Marchierù, fino ad iniziare i lavori per la rete di irrigazione delle campagne circostanti le sue proprietà, conclusi dal figlio Enrico.
Sua madre era Maria Canera di Salasco, Dama di Corte della regina Maria Teresa, sorella del conte Carlo Canera di Salasco, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Piemontese che firmò l’armistizio che da lui prese nome, preludio al termine della prima Guerra di Indipendenza.
Enrico sposò Maria Arnaud di San Salvatore, discendente da due fra le più importanti famiglie francesi, i Richelieu ed i Gallifet.
L’ultima erede dei Filippi, Camilla, andò sposa al conte Vittorio Prunas Tola, e quindi al loro figlio primogenito Severino, anch’egli Accademico dell’Agricoltura, tramite il quale il castello e la tenuta sono pervenuti agli attuali proprietari Mariconda, discendenti dei patrizi napolitani dell’antico sedile di PortaCapuana.
Chiesa della Beata Vergine delle Grazie detta "del Monastero"
La Chiesa della Beata Vergine delle Grazie, più comunemente nota come Chiesa dell'Ex-Monastero, definita dal maggiore storico di Villafranca P.te - il Prof. Stefano Grande - : " ... forse la più bella Chiesa del paese, costruita a rigore d'arte, in puro stile barocco, con precisione e simmetria di particolari e di affissi..." la cui fondazione è da collocarsi nell'anno 1702.
Nel 1517 le monache Agostiniane si insediarono intorno ad una piccola Chiesa dedicata a S. Rocco, loro concessa dal Comune.
La data di inizio della costruzione della Chiesa della Beata Vergine delle Grazie è da collocarsi nell'anno 1702. Da una descrizione puntuale della Visita Pastorale del 1751 l'edificio presentava una struttura architettonica di base non dissimile da quella attuale, che era poi la struttura originaria di inizio secolo. Tuttavia la chiesa era grezza, mancante di rifiniture e della volta della cupola; priva di ornamentazioni omogenee e, soprattutto, di una facciata ("volto") urbanisticamente logica.I lavori del 1755 furono proprio orientati alla risoluzione di questi problemi.L'ingente materiale impiegato, il gesso, i mattoni, la calcina dolce e forte, le "tavolete", la "sabia dal Pelice", la "sabia dal Po", ecc. documentano lavori di grande portata; non semplici restauri, ma una profonda ristrutturazione. L’architetto Francesco Valeriana Dellala di Beinasco che i documenti ci consegnano come progettista e sovraintendente ai lavori, creò per la facciata di Santa Maria delle Grazie una scenografia di notevole imponenza, inserita piuttosto felicemente nell’economia architettonica del paese. Nettamente divisa in due registri, convessa nella parte centrale, la facciata commette aspetti rococò e neoclassici. Questi ultimi sono particolarmente evidenti nel timpano ricurvo affiancato da piramidi aguzze e aperto al centro con effetto “trompe-l’oeil” verso uno dei quattro grandi finestroni della cupola. Lesene con capitelli decorati in stucco sottolineano la verticalità della facciata. Stucchi “rocailles” incorniciano sopra la porta centrale i simboli di Sant’Agostino e spesse modanature creano righe d’ombre orizzontali permettendo una dilatazione della facciata stessa in due piccole ali laterali, che risolvono felicemente il problema dell’aggancio della struttura architettonica stessa con gli adiacenti fabbricati. Due finestrini ovali, di gusto quasi ottocentesco, mascherano ulteriormente l’aggancio equilibrando al contempo la dilatazione eccessiva delle finestre della fascia centrale.
Una facciata quindi che si colloca come intermedia “fra gli ultimi bagliori del rococò e l’inizio del neoclassicismo” e il Dellala nel progetto del cimitero di San Pietro in Vincoli a Torino, eseguito immediatamente dopo quello villafranchese ( fra il 1775 e il ‘78), congelando maggiormente le forme, appare avviarsi decisamente verso convinte soluzioni neoclassiche.
Al Dellala spetta anche la risistemazione dell’interno della chiesa attuata con l’ausilio dell’architetto Gioachino Felice Butturini al quale si deve anche il disegno dell’altare maggiore. L’interno presenta la compenetrazione di una ellisse e di una croce nel cui braccio orizzontale sono due altari. L’altare maggiore, separato dalla zona dei fedeli da una balaustra lignea è addossato alla parete e sovrastato da un grande quadro ovale rappresentante la Madonna delle Grazie con i santi Agostino, Monica e Defendente. Nello spazio fra la parte superiore dell’altare e il quadro è ancora distinguibile l’area ove un tempo era la grata che separava il coro delle monache della chiesa.
La decorazione dell’interno si avvale di un massiccio uso dello stucco. Il “sig. Sanbartomeo”, stuccatore modellò qualcosa come dodicimila chilogrammi di gesso e si vede. Una profusione di conchiglie modanate, putti, rami di palme e di rose, s’affastella su tutte le pareti fra i gruppi di lesene scanalate.
A completare la decorazione di Santa Maria delle Grazie fu poi chiamato il “sig. Carera pitore” che affrescò dieci storie della vita di Maria corniciate da stucchi.
Il Carrera, artista di svagata piacevolezza e di facile e felice vena narrativa, non esitò ad ispirarsi per qualche scena a pitture già presenti in Villafranca. Lo fece con grazia , riempiendo le sue storiette di gentil figurine paesane, vivacizzandole con un tratto veloce e sicuro e con colori teneri ed accesi. Una storia sacra la sua stemperata in minuti episodi: l’affettuoso affaccendarsi delle donne intorno alla puerpera Anna nella Nascita delle Vergine, l’abbraccio di gran corsa fra Maria e Elisabetta nella Visitazione, il famigliare involto di panni che dondola dal dorso dell’asino nel Viaggio a Betlemme. Un mondo minuto descritto con curiosa simpatia, in grado però di evocare una quieta Arcadia provinciale presto destinata a svanire travolta dalla bufera rivoluzionaria. Al Carrera spetta anche la piccola gloria d’angeli affrescata nel baciletto della cupola e che appare ritoccata.
Santa Maria delle Grazie intreccia dunque, fra i tanti, percorsi di due personalità artistiche semisconosciute, ma di certo interesse. Grande infatti è la sua importanza nello studio della figura di Valeriano Dellala di Beinasco, il cui curriculum annoverava fino ad oggi pochissimi edifici superstiti fra i molti progettati. Per il Carrera poi è addirittura basilare; essa racchiude infatti l’unica sua opera conosciuta e costituisce un punto sicuro per ulteriori studi sulla sua figura.
La chiesa del monastero di clausura quindi si presenta ben chiara ed aperta ad una lettura storico-artistica, con tempi definiti e nomi precisi di operatori; pronta ad una discussione per proposte di restauro ed ipotesi di riuso. L'immobile divenne di proprietà comunale nell'anno 1978 per donazione dei discendenti della famiglia Rebuffo.
Da allora è sede di importanti eventi di promozione culturale organizzati dall'Amministrazione Comunale: concerti vocali e strumentali, mostre di Pittura di Scultura e Fotografiche.
Chiesa dell'Annunziata
La Confraternita dell'Annunziata è di origine popolare e moderna, ed è anteriore alla Chiesa.
Risulta infatti che nel 1621 fu costituita una Compagnia di Confratelli, detta dei Disciplinati, che si radunava nella Chiesa di Sant'Antonio. Questi, essendo ormai un numero considerevole, il 25 aprile di quell'anno acquistarono una casa rustica, col contributo loro e con elemosine raccolte, ove fecero sorgere l'attuale Chiesa dell'Annunziata.
Questa fu approvata dall'Autorità Ecclesiastica il 16 marzo 1623, terminata nel dicembre 1624 e nel 1668 ebbe un Cappellano proprio.
La Chiesa subì numerose variazioni nel 1685, 1839, 1850 e 1872.
Dietro l'altare maggiore è conservata una magnifica icona di legno in stile rinascimentale.
Il quadro che ne occupa il centro rappresente l'Annunziata ed è opera del pittore Sebastiano Taricco di Cherasco (1645 - 1710).
Chiesa di San Bernardino
La Chiesa di San Bernardino, già esistente nel 1400, venne poi riedificata nel 1769 e rinnovata nel 1785. Venne alzata dagli Ospitalieri quando apparve loro insufficiente la precedente Chiesa o Cappellania di Santa Maria nelle Aie di Sant'Antonio. Il nome di San Bernardino ricorda la fervente predicazione a Villafranca di questo apostolo della Carità (1380-1444).
Presso l'Altar maggiore è conservato uno dei capolavori della pittura secentesca italina: un quadro che rappresenta la Deposizione di Gesù dalla Croce, datata 1627, opera del pittore saviglianese Giovanni Antonio Molineri(1577-1640), noto come il "Carraccino" poiché allievo del bolognese Annibale Carracci. Cristo è deposto dalla croce ed in basso, sulla sinistra, la Vergine si abbandona al dolore attorniata dalla pie donne. A destra San Bernardino invita alla meditazione sul meditazione.
Chiesa di San Giovanni Battista
Poco distante dalla Cappella di Missione, in Frazione di San Giovanni si erge l'omonima chiesa dedicata al Santo Patrono, la cui fondazione risale al 1200. La costruzione rappresenta un altro dei preziosi gioielli del patrimonio artistico villafranchese. La Cappella è infatti riccamente affrescata da un ciclo di opere, datate intorno al 1540, per la maggior parte attribuite al Maestro: Jacobino Longo (Jacobinus Longus).
La successione degli affreschi si può suddividere in tre gruppi: quello principale, contenente un ciclo mariano, dipinto sulla parete absidale, dietro l'altare; gli altri due gruppi, che riguardano le opere presenti sulle pareti laterali, contenenti raffigurazioni di santi.
Storia e architettura
Il primo documento ufficiale in cui compare la Chiesa di San Giovanni è una pergamena originale del 1037 in merito alla dotazione di beni e chiese dell'abbazia di Cavour del fondatore Landolfo vescovo di Torino.
Si tratta molto probabilmente di un falso ovvero di aggiunta fatta alla fine del secolo XIII allo scopo di rendere la chiesa più importante facendola risalire intorno all'anno 1000 così inserendola fra le dipendenze dell'abbazia.
Ne è prova di quest'aggiunta la scrittura gotica corsiva con cui è stata redatta, caratteristica della fine XIII sec. e ben diversa dalla scrittura carolina del documento stesso.
Quando la chiesa sia stata costruita e da chi, e da quando essa abbia cominciato a far parte della giurisdizione ecclesiastica dell'abbazia di Santa Maria di Cavour non esiste alcun elemento certo ma si può ritenere che una cappella dedicata a San Giovanni esistesse già almeno alla fine del XIII secolo. A partire dal 1320 abbiamo la sua presenza in atti di collazione con cui gli abati comunicavano ai monaci i benefici ecclesiastici a loro concessi.
Della primitiva costruzione romanica o gotica nulla è rimasto, o almeno è visibile oggi. L'attuale facciata è neoclassica. Proprio sotto il colmo del tetto in posizione così alta da renderne difficile la lettura è murata una lapide ovale in marmo locale che ricorda il rifacimento della chiesa, ma senza data. Dall'iscrizione si può apprendere la dedica a San Giovanni Battista (DIVO JOANNI BAPTISTE), il restauro della chiesa quasi crollante per lo stato di abbandono a cui era venuta incontro e quindi priva dell'antica decorazione (ANTO DECORE EXUTAM).
La terza riga dal basso quasi illeggibile può far interpretare un (POST BELLUM) (dopo una guerra) in accordo con le circostanze storiche e le vicende del paese nel periodo in cui si presume la realizzazione della ricostruzione della chiesa e cioè tra il 1535 e il 1540.
Infatti Villafranca aveva conosciuto all'inizio del sec. XVI dapprima stragi di peste nel 1501, 1510 e 1523 e poi le prime campagne di guerra tra francesi e spagnoli. In particolare tra il 1520 e 1530 queste territori furono teatro di numerosi scontri tra le due parti ma in particolare la popolazione civile fu oggetto di violenze e sopraffazioni dalle scorribande dei Lanzichenecchi di Carlo V (spagnoli).
Con l'occupazione francese dal 1536 di buona parte del Piemonte sud-occidentale con Torino e Pinerolo, cominciò un periodo di relativa pace.
L'antica chiesa di San Giovanni doveva essere un vano rettangolare, con certamente un'abside e un tetto in vista;non vi sono tracce di colonne o mensole destinate a sorreggere una volta.
Il restauro del Cinquecento consistette nell' elevazione di un muro liscio ad est in luogo dell'abside già crollata o distrutta. Ad esso è addossato un arco assai curioso sostenuto da 2 pilastri posti negli angoli. L'arco è a pieno centro dove si appoggia e chiude il muro, mentre è più alto e slanciato ad arco acuto verso il vano della chiesa.
Già da una relazione di una visita apostolica del 1584 si evidenzia la necessità di rialzare il pavimento troppo basso perché le pareti erano devastate dall'umidità. Ancora oggi è molto facile vedere il pavimento e la parete verso nord verdi per la muffa.
In un'epoca non conosciuta furono costruiti all'interno dei pilastri con archi a pieno centro a sorreggere le basse volte allo scopo di consolidare la struttura ma così nascondendo alcuni affreschi.
La chiesa di San Giovanni all'inizio del sec. XVIII non faceva più parte dell'abbazia di Santa Maria di Cavour.
E' del 1893 la costruzione interna di una cappella alla Madonna di Lourdes sfondando a metà chiesa il muro della parete sud. Non si conosce se furono distrutti affreschi in quella occasione.
Nel 1912 il sovrintendente ai monumenti del Piemonte D'Andrade diffidava il Sindaco dal distruggere la parte finale della parete sud per ingrandire la finestra e innalzare il campanile, questo poi effettivamente costruito presso la sacrestia a nord nel 1928.
Nella stessa lettera il D'Andrade si lamentava per la costruzione di un pulpito nell'ultima campata della parete nord nascondendo e deturpando un affresco "di tutto rispetto".
(testo a cura di Valentino Rosso)
Chiesa di San Giovanni Battista - gli affreschi e Jacobino Longo
Gli affreschi della chiesa di San Giovanni sono stati oggetto nel tempo passato di studi volti a identificare in modo più preciso l'autore (o gli autori) e la loro datazione. In particolare solo nel 1983 si arriva a delle valutazioni più o meno concordi nel poter affermare :
Periodo degli affreschi : intorno al 1540 Autore : Jacobino Longo
Parete sud
La parete della chiesa è quella meno illuminata e quindi lasciata per ultima per gli affreschi dall'autore. Anche per questo motivo viene attribuito a Jacobino soltanto il Cristo di Pietà, una figura di Cristo diritto e appoggiato sull'orlo di un avello del tutto simile nel viso, nella barba nelle spalle diritte, braccia e gomiti, nel particolare modo con il quale le costole sono segnate di verde alla figura di Cristo presente nel Santuario della Madonna del Buon Rimedio di Cantogno (frazione di Villafranca P.te) elementi questi che possono far attribuire queste due opere alla stessa mano e allo stesso periodo. Anche perché esiste un altro elemento che accomuna la deposizione del Cristo di Cantogno con gli affreschi della chiesa di San Giovanni e cioè la figura del santo alla sinistra del gruppo Madre e Figlio di Cantogno assolutamente identico nell'atteggiamento, nell'aspetto fisico, negli abiti e nella borsa, e in modo particolare nelle braccia e nelle grandi mani disposte a cestello al San Giuseppe presente nella scena dell'Adorazione del Bambino nella parete del presbiterio (di cui vedremo più avanti). Un altro elemento accomuna questo affresco della parete sud con gli affreschi della parete nord : dietro il capo delle figure isolate è dipinto un pannello di stoffa scura bordato di un nastro celeste che agli angoli superiori forma due occhielli.
Le altre due figure presenti sulla parete sud, le uniche non attribuite a Jacobino, sono San Michele e San Antonio Abate. Quest'ultimo particolarmente importante per collocare temporalmente gli affreschi perché di fatto quest'affresco reca in basso a destra l'unica data (anno) leggibile in tutta la chiesa : 1541.
Parete Nord
La parete nord è decorata da una serie di santi allineati in una fascia alta m. 1,80. La decorazione che doveva essere dipinta sulla parte inferiore del muro, forse una tenda a strisce gialle e rosse a proseguire il motivo presente al presbiterio è scomparsa per l'umidità.
Nelle figure si riconoscono alcune caratteristiche della pittura di Jacobino :le grandi mani dalle lunghe dita a martello, mani che quando mostrano il palmo hanno i monti del pollice e del mignolo così sviluppati da sembrare deformi; gli occhi fissi con le sopracciglia perfettamente semicircolari.
Si è già detto del pannello di stoffa dietro al capo delle figure.
Partendo dal fondo poco rimane di una Santa Marta quasi totalmente ricoperta da un pilastro e di cui rimane in basso soltanto leggibile l'iscrizione in bei caratteri gotici quattrocenteschi.
Poi viene un primo San Giovanni con il libro e l'agnello; quindi una scena del Battesimo di Gesù quasi certamente ispirato all'analogo dipinto su tavola di Martino Spanzotti del Duomo di Torino (1510) che dovette far molto colpo fra gli artisti piemontesi del periodo. Il Cristo, nel viso e nella corporatura può richiamare in parte quello presente sulla parete antistante.
Viene poi San Bernardo con il bastone episcopale da cui pende la catena che lega il demonio difficilmente visibile.
Segue quindi una Sant'Agnese o Santa Lucia dall'abito rosso e argento e un viso deturpato dall'umidità.Il Santo che segue è per metà scomparso dietro il pilastro di rafforzamento. La stessa sorte è successa alla figura a destra della Madonna con il Bambino in trono. E' rimasto invece nella stessa scena a sinistra un San Giovanni. La presenza in così pochi metri una dall'altra delle figure di San Giovanni sta ad indicare la particolare devozione che ognuno dei diversi committenti ha voluto dimostrare al santo titolare della chiesa. Tornando ad esaminare la Madonna in trono, Jacobino si è ispirato ad un modello ancora quattrocentesco. E' seduta su un trono grigio dai montanti sormontati da due leoncini, contro il quale spiccano l'oro dell'aureola, dei capelli e dell'abito che indossa sotto il manto scuro, e il vestito rosa e verde del Bambino.
Questa scena è divisa dalle seguenti figure dal motivo di un nastro, rosso all'interno, giallo e rosso a bolli all'esterno, avvolto a spirale attorno ad un arboscello, come quello che divide orizzontalmente la scena dell'Annunciazione dalle sottostanti sulla parete del presbiterio: elemento questo che accomuna le due pareti. Al di là del nastro viene un giovane molto elegante nell'acconciatura e nel mantello dalle grandi maniche portato sopra un abito color argento tipica moda dei primi decenni del '500 e con le scarpe scollate e larghe in punta cosiddette "alla francese". Raffigurazione molto probabile di San Chiaffredo santo locale del saluzzese (si veda anche frecce e spada)
Ultima figura singola molto probabilmente Papa Gregorio Magno accuratamente raffigurato nei suoi paramenti :la dalmatica che ricade sulle scarpe rosse, il piviale nero, la cappa rossa foderata di verde, il libro e la croce in mano.
Infine, distrutte per l'installazione di un pulpito, viene una probabile Madonna in trono con San Rocco e altri santi e una scena della Crocifissione. L'elemento più caratteristico di questa Crocifissione e la figura della Maddalena dal vistoso prognatismo e dal profilo del naso allungato e arrotondato molto simile a quello dell'arcangelo Gabriele della scena dell'Annunciazione della parete del presbiterio, elemento questo che accomuna le due pareti.
Gli affreschi della parete del presbiterio
Sicuramente gli affreschi di maggior interesse e valore della chiesa. Si tratta sostanzialmente di un ciclo mariano con la scena dell'Annunciazione in alto; l'Adorazione del Bambino a destra; l'Adorazione dei Magi a sinistra.
L' Annunciazione
L'arco al sommo della parete è decorato da una larga fascia di fronde intrecciata da un nastro recante in caratteri gotici con un andamento rinascimentale le parole dell'annunciazione : "Ave Maria gratia plena" e "Ecce Ancilla Domini".
Secondo la nuova concezione iconografica del '500 la Vergine che nelle Annunciazioni anteriori stava a destra qui si trova a sinistra in una stanzetta, inginocchiata davanti a un mobile coperto da un drappo bianco a grosse pieghe e a un libro; (lo stesso mobile che Jacobino Longo aveva dipinto o dipingerà per l'Annunziata della cascina del Valinotto a Carignano). L'Angelo dalle ali bianche all'interno e rosse all'esterno e fortemente ripiegate in avanti ha una capigliatura biondissima tutta a riccioli e ha un profilo quasi animalesco.
Nella posa del ginocchio avanzato, nel lungo mantello sopra la tunica bianca dai polsini arricciati ricorda molto l'Angelo della vetrata a Crea realizzata su disegno di Martino Spanzotti.
Dietro le due figure si scorgono le mura esterne di una città con finestre e porte congiunte da una grande porta rinascimentale.
Divide per tutta la lunghezza della parete questa scena da quelle sottostanti un grande nastro giallo e marrone a grossi bolli attorcigliato attorno a un esile fusto.
L' Adorazione del Bambino
Non è collocata nella tradizionale capanna dal tetto sfondato in mezzo alla campagna popolata di pastori, ma in un insolito porticato con una finestra alta sul cielo. La scena è molto sobria quasi a voler tendere a concentrare l'attenzione sulla famiglia sacra. La pietra grigia mette bene in risalto la veste blu scuro della Madonna e la veste rossa scura di San Giuseppe. La figura della Madonna è medesima per acconciatura, profilo, mani giunte e pollici incrociati alla Vergine dipinta da Macrino d'Alba in una analoga scena. Anche il Bambino si succhia il dito come nelle tavole di Macrino. Per San Giuseppe valgono le considerazioni già fatte in precedenza sulle similitudini con il Santo rappresentato nel Cristo di Pietà a Cantogno. Caratteristiche di Jacobino sono certamente le grandi mani incrociate a cestello, distanti dal petto.
Nel piccolo spazio tra questa scena e la curva dell'arco del presbiterio è dipinto un frate che per il saio bruno, il crocefisso che regge sopra il capo, il libro che tiene in mano si può ricondurre a Sant'Antonio da Padova.
L'Adorazione dei Magi
La scena si compone in strada davanti a una serie di edifici di gusto rinascimentale che formano il lato di una via. I tre Re per dimensioni e rilevanza diventano i principali personaggi mentre la famiglia sacra un po' spenta rimane in disparte dall'attenzione.
Il Re più anziano è Baldassarre in un abito grigio e marrone con grandi maniche ed è inginocchiato e fortemente inclinato in avanti. Davanti a sé una corona d'oro. Il secondo Re Melchiorre è in piedi, vestito di rosso con un mantello blu ricamato con i gigli di Francia. Pare riassumere i tratti di Francesco I Re di Francia. Infatti nel '500 era molto di moda dare ai Re Magi i tratti dei sovrani regnanti e Francesco I nel 1536 era diventato anche sovrano di parte del Piemonte (questa considerazione va anche a conferma delle valutazioni fatte per individuare una datazione e un autore degli affreschi). Il terzo Re Gaspare ,il Moro, è il più interessante :molto elegante nel suo abito bianco e giallo, assolutamente estraneo all'adorazione se non per il vaso di mirra nella destra, si rivolge insolitamente verso i fedeli con occhi quasi imploranti.
L'autoritratto di Jacobino Longo
A sinistra dell'Adorazione dei Magi, bene in vista è dipinto un alto personaggio, con l'aureola, un berretto nero "alla francese" come si usava al principio del 1500. E' vestito di un "robbone" rosso scarlatto a grandi pieghe a cannelloni di stile ancora quattrocentesco, quale lo portavano personaggi laici importanti come professori e studiosi, consiglieri di corte, ambasciatori.
Dal colletto spunta la camicia dalle ampie maniche. Porta una cintura nera.
E' una figura che s'impone, di un uomo sicuro di sé con una affermata e riconosciuta personalità. Il viso ha tratti molto segnati, potrebbe indicare un'età tra i 40 e i 50 anni.
Sta leggendo una lettera con tre righe scritte sul dorso come se fossero l'indirizzo e quindi come se il personaggio ne fosse il destinatario. Si leggono chiaramente la lettera "A" e la lettera "L". La prima lettera è meno chiara ma si può ricondurre a una "J" piegata in basso a destra anziché a sinistra.Nella seconda riga che dovrebbe essere l'anno si legge solo il secondo segno un 5. Il resto non è decifrabile, così come non è decifrabile la terza riga che avrebbe dovuto indicare mese e giorno.
In definitiva si può riassumere la scritta comprensibile in "JAL" che è sempre stata la sigla con cui Jacobino Longo (Jacobinus Longus) ha inteso firmare le sue opere.
Pertanto la presumibile firma dell'autore; l'età del personaggio (40-50 anni) del ritratto (plausibile con la data di nascita del Jacobino non oltre il 1490); tutti gli elementi cinquecenteschi qua e là riscontrabili nelle pitture; la circostanza del Re Mago Melchiorre rassomigliante a Francesco I Re di Francia; la presenza dell'anno 1541 sull' affresco di Sant'Antonio (peraltro in uno dei due affreschi non attribuiti a Jacobino ma importante comunque per definire una datazione) sono tutti elementi concordi nel collocare intorno al 1540 la data di realizzazione degli affreschi della chiesa di San Giovanni e in Jacobino Longo quale suo autore, pittore poco conosciuto del '500 pinerolese che tuttavia ha saputo anche arricchire con le sue opere questi piccoli angoli del nostro territorio.
(testo a cura di Valentino Rosso)
Chiesa di Santa Maria Maddalena
La più lontana origine della Chiesa della Maddalena va rintracciata in un'antica chiesa parrocchiale esistente già nel borgo di Musinasco, prima della fondazione di Villafranca Piemonte. Esplicito accenno a questa Chiesa, infatti, appare in atti del 1336 e del 1363. La Chiesa della Maddalena era, per di più, sede del Consiglio Comunale.
Ormai insufficiente al servizio religioso essa fu demolita nel 1611 per essere poi ricostruita, non senza difficoltà, nel 1621 con 2 altari.
Per completare la sua costruzione intervenne il Comune e questo provocò la gelosia dei borghigiani di Santo Stefano i quali, nottetempo, disfacevano ciò che gli altri costruivano di giorno. La diatriba si risolse definitivamente nel 1667 quando le due parti sottoscrissero un accordo volto a regolare il percorso delle Processioni.
Tra il 1818 ed il 1823, grazie all'eliminazione del cimitero posto a Mezzogiorno rispetto alla Chiesa ed al lascito del Padre Cappuccino Onorato Dassano, venne attuato l'ampliamento e la Ciesa, nel 1843, assumeva la forma e l'aspetto esteriore che mantiene ancora oggi.
A causa dell'azione del tempo e soprattutto della scossa di terremoto del 1887, si resero necessari alcuni lavori di restauro terminati, nel 1902, con le costruzioni murarie.
Chiesa di Sant'Antonio
La Chiesa di Sant'Antonio, abbattuta nel 1933 per far fare un rettifilo tra le Aie omonime e l'attuale via Roma, era stata eretta dalla Comunità in tempi antichissimi ed assegnata agli Ospitalieri e nel 1640 ai Monaci Cistercensi di San Bernardo che si proponevano di far sorgere un Convento nella vicina zona di Candellino, cosa che poi non avvenne. La Chiesa, che già allora si trovava in cattive condizioni murarie, venne restaurata e ribenedetta nel 1659.
Tra il 1830 e 1840 si resero necessarie altre riparazioni quando furono abbattuti i Bastioni Verdi.
Nel 1933 la Chiesa fu abbattuta e questo determinò la perdita dell'affresco rappresentante il Bambino Gesù, affresco preziosissimo dal punto di vista storico ed artistico.
La nuova Chiesa fu affrescata dal pittore Teoneso Deabate.
Chiesa Parrocchiale di Santo Stefano
Il primo accenno storico ad una chiesa dedicata a Santo Stefano risale al 1037, quando Landolfo, Vescovo di Torino, fondando la vicina Abbazia di Santa Maria a Cavour, donava a questa, tra l’altro, la Chiesa e le tre Cappelle esistenti nel Borgo Soave.
Nella II metà del XII secolo, gli abitanti di Borgo Soave vennero in gran numero a stabilirsi nell’attuale Villafranca e prima loro cura fu di far sorgere una nuova Chiesa, che vollero dedicata al Protomartire. Gli abitanti che invece rimasero nel Borgo Soave si ricostruirono in seguito anch’essi una chiesa, che dedicarono a San Giovanni, dalla quale deriva l’attuale nell’omonima frazione.
La nuova Chiesa di Santo Stefano di Villafranca venne affidata ai monaci di San Benedetto dell’Abbazia di Cavour col titolo di "Priorato" e fu da tali monaci officiata fino al 1315.
Il 31 ottobre1315 don Ruffino di Bagnolo, Priore di S. Stefano, sentendosi ormai vecchio e privo di monaci officianti chiedeva di rinunziare alla Chiesa che rimetteva nelle mani del Vescovo di Torino, Monsignor Tedisio. In tale modo si chiudeva il periodo Benedettino della Chiesa e incominciava il secondo periodo, nel quale la Parrocchia regolare ( cioè tenuta da monaci) diveniva secolare (cioè tenuta da preti), alla diretta dipendenza del Vescovo di Torino.
A questo secondo periodo, che durerà dal 1315 al 1530, fa riferimento il grande restauro e notevole ingrandimento della Chiesa stessa.
Successivamente ci fu l’avvento dei Padri Agostiniani dovuto ad una grave necessità pubblica (epidemia di pestilenza). Tale intervento non fu ben accetto dal Comune, preoccupato del fatto che la bella parrocchia, già officiata da preti secolari, divenisse Chiesa monacale.
Nonostante le numerose ed alterne vicende il periodo Agostiniano della Parrocchia di Santo Stefano durò dal 1529 al 1802 e cioè 273 anni.
Le condizioni di Villafranca nella prima metà del 1800 erano piuttosto critiche: conflitti tra autorità Comunali e parrocchie, tra clero regolare e secolare, saccheggi da parte di eserciti stranieri, miseria, anarchia e pestilenze.
A questa situazione pose parziale rimedio il Concilio di Trento quando, a seguito della visita di un delegato Apostolico, nel 1584, si impartirono alcune disposizioni volte a riportare un po’ d’ordine. Un’iniziativa importante, per esempio, fu l’introduzione dei registri di Anagrafe. Questi registri, tuttora gelosamente conservati dalla Parrocchia, sono redatti in lingua italiana fino al 1655 e in seguito in latino, e costituiscono una preziosa miniera di notizie familiari genealogiche.
Se i secoli XVI e XVII sono contrassegnati dalle contese fra i Padri e il Comune per il possesso della Chiesa, il XVIII è il secolo delle liti per le riparazioni.
Nonostante le gravi difficoltà però, i miglioramenti della Chiesa continuarono sempre abbastanza attivi. Occorre infatti riconoscere che la Chiesa - che nel 1531 i Padri Agostiniani avevano ricevuto in condizioni materiali e spirituali disastrose – veniva lasciata nel 1801 ingrandita, rinnovata, indipendente dal Comune, ricca di censi, di lasciti e di benefizi, ben avviata alla magnificenza d’oggi.
Dal 1801, in seguito alla soppressione degli ordini religiosi decisa da Napoleone la parrocchia di S. Stefano ritorna secolare.
I parroci che si avvicendarono alla guida della Parrocchia si distinsero tutti per l’importanza delle loro iniziative destinate al miglioramento non soltanto della Chiesa, ma anche della Comunità.
Ad ognuno di loro va il ringraziamento della Cittadinanza tutta.
Insediamenti di architettura industriale
Mulini Vottero
Fin dai tempi feudali, mulini, bealere e diritti d'acqua, erano proprietà esclusive di Casa Savoia. A seguito della dominazione napoleonica, nel 1811, il signor Adriano Audifredi di Torino, si aggiudicò l'acquisto dei due mulini, dei quali fu proprietario fino al 1882, anno in cui li cedette all'ultimo affittavolo, il Cav. Giuseppe Vottero. I modesti mulini villafranchesi, grazie alla sapienza di quest'ultimo, divennero, all'inizio del '900, tra i migliori stabilimenti di macinazione del Piemonte. La produzione poteva raggiungere, in un giorno, i 600 q circa di prodotto finito.
Nel 1908 i due mulini vennero collegati alla vicina stazione ferroviaria tramite un raccordo privato. Nel 1938 il Mulino Vottero, completamente rinnovato nelle attrezzature e nei macchinari, raggiunse il massimo della produttività. Alla fine della seconda guerra mondiale, i mulini vennero quasi completamente smantellati: la famiglia Vottero tenne come unica proprietà la villa padronale; una parte del mulino venne acquistata dal Consorzio Agrario Provinciale di Torino, mentre l'edificio vero e proprio del mulino fu acquistato nel 1970 da privati e trasformato in edificio residenziale.
Del mulino inferiore non esiste più alcuna traccia, se non il salto d'acqua che la Bealera Granda compie, e che serviva ad azionare la ruota. Del complesso intorno al mulino superiore rimangono i locali, adibiti un tempo ad uffici e magazzini.
Palazzo ed Ala Comunale
Il Palazzo Comunale, elegante e solida costruzione, richiederebbe un approfondito esame. Al momento ci limitiamo a rilevare che nella sala preconsiliare è dipinta una toponomastica della Villafranca di un tempo, presumibilmente attribuibile al pittore Teonesto Deabate che, con ogni probabilità, operò su un preesistente disegno.
L’Ala Comunale invece, esempio di edilizia tardo gotica, è uno degli ultimi esempi di ale lignee come riferimento tipologico dell’ala antica di Saluzzo, eretta nel 1501, demolita nel 1957, denominata “del Pellerina”. Secondo la tradizione locale il “pellerino” usato in alternativa alla voce “ala” era indicativo di una probabile collocazione, all’interno della tettoia o in adiacenza ad essa, del “pelerinum” ossia della gogna o berlina a cui venivano appesi i rei di frode nel commercio.
La similitudine tra le due ali è molto evidente, stessa pianta rettangolare a due navate su tre file di pilastri a sezione ottagonale (diametro 60 cm circa) uniti perimetralmente da un cordolo in muratura intonacato, stesso tipo di orditura del tetto, costituito da una trave in legno impostata sui pilastri di spina, su cui appoggiano i puntoni rinforzati da saette e manto di copertura in coppi, pavimentazione in acciottolato. L’ala comunale aveva la funzione di mercato coperto, in un primo tempo per granaglie e successivamente per ogni tipologia merceologica.
Podere Pignatelli
Ubicazione: Frazione Madonna Orti - limitrofa al fiume Po
Si tratta di una cascina modello sede dell'ononimo ente morale "Podere Pignatelli" che dal 1879 contribuisce allo sviluppo dell'agricoltura attraverso i campi sperimentali, la scuola per contadini, la divulgazione e gli incontri con gli agricoltori. Sono nate in questa azienda alcune importanti varietà di cereali e alcuni ibridi di pioppo, tra cui I'I1214 attualmente ancora il più utilizzato in tutto il nord d'Italia.
Annesso alla cascina c'è il museo della pesca. La visita è suggestiva e puo essere effettuata anche raggiungendo l'azienda con le barche discendendo il fiume Po.
Atti di fondazione - Evoluzione storica del lascito
5/2/1879
Hanno efficacia le volontà testamentarie di Giuseppe Leone Pignatelli.
25/6/1882
Il lascito è eretto in Ente Morale con decreto 25/6/1882 n. DCXXVI serie 3°-547- e prende il nome di "Podere Pignatelli".
Dal 1903 al 1909
Sotto la direzione del Prof. Ettore Bodoira, introduce nuove tecniche colturali con concimazioni razionali, arature ed erpicature del terreno, semina a strisce della canapa e sarchiatura meccanica.
Vengono svolte le prime prove varietali di frumento e confronto di tecniche colturali. Nei prati si confronta l'effetto delle concimazioni con scorie Thomas. Nell'allevamento inizia la selezione del bestiame bovino e la cura dell'alimentazione. Diffonde la lotta contro la Diaspis del gelso per salvare la bachicoltura.
Dal 1913 al 1947 il posto da direttore viene ricoperto dal Prof. Jacometti coadiuvato dal capo conduttore Sig. Bergesio.
11 26/10/1922 il Ministro dell'Agricoltura approva, il Regolamento della Scuola per Contadini.
Nasce nel 1919 la Stazione Fitotecnica per il Piemonte in cui si dedica particolare attenzione al miglioramento genetico delle varietà di grano e alla selezione di alcune nuove varietà come l'Ibrido Pignatelli o Precoce del Piemonte. Altre colture soggette a miglioramento sono state le patate, l'asparago, la soia, il pisello, il fagiolo, la canapa (tutto il lavoro svolto dal 1945 viene continuato alla S.1. S. di Alessandria).
Dal 1929 al 1931 sorge l'Istituzione tecnico-agraria per il Miglioramento del pioppo (Finanziata in gran parte dalle Cartiere Burgo) con la selezione di alcuni nuovi cloni fra cui I'1214 attualmente ancora il più utilizzato in tutto il Nord d'Italia. (Tutto il lavoro svolto e i materiali vengono trasportati presso l'Istituto di Pioppicoltura di Casale Monferrato nel 1951).
Dal 1957 al 1994 la direzione passa al Dott. Marocco Paolo.
Nel settore zootecnico imperniato sull'allevamento dei bovini, si procede al risanamento della Brucellosi e della TBC (II 75% dei capi era positivo), si effettuano le prime prove di allevamento a stabulazione libera con recinzione elettrica, e l'inserimento dell'insilato nell'alimentazione del bestiame.
Si passa all'allevamento avicolo (le prime prove di allevamento da carne e di ovaiole sono iniziate nel 1961). Nel settore foraggiero (negli anni 1958-1964) si effettuano le prime prove di coltivazione di erbai e di conservazione dei foraggi con ottimi risultati col sistema di pre-essiccazione in campo e successiva essiccazione in azienda mediante ventilazione forzata dei foraggi.
Nel settore cerealicolo vengono effettuate prove di confronto varietale nelle colture di frumento, e mais effettuate in collaborazione con le principali ditte sementiere avendo perso le possibilità finanziarle per effettuare selezione diretta in competizione con le multinazionali.
Vengono anche svolte prove di concimazione e di investimento sui migliori ibridi presenti in commercio. Vengono effettuate collaborazioni saltuarie con l'Università e precisamente l'istituto di Meccanica Agraria e di Malerbologia per il controllo delle erbe infestatnti, e collaborazioni con l'Istituto di Cerealicoltura di Bergamo. Nel settore pioppicolo dal 1956 al 1970 sl tenta il rilancio della pioppicoltura (anche se manca la collaborazione con l'Istituto di Pioppicoltura).
Dal 1994 viene nominato capo conduttore economato il Dott. Marocco Silvio.
Nel settore zootecnico continua l'allevamento di ovaiole da riproduzione con miglioramento della tecnologia utilizzata all'interno dei capannoni. Nel settore ceralicolo vengono effettuate prove dl confronto varietale nelle colture di mais effettuate in collaborazione con le principali ditte sementiere, in particolare negli anni 1996-1998 vengono provati gli "O.G.M." con ibridi di mais resistenti alla piralide e soia resistente al Roundup, e a partire dall'anno 2000 prove di coltivazione di mais biologico.
Nel settore pioppicolo dal 1996 si inizia con la collaborazione con i Vivai Allasia di Cavallermaggiore per la prova di alcuni cloni di pioppo a confronto con il 214 nato in questa azienda.
Attuale Consiglio di Amministrazione:
- Presidente nominato dalla Regione: GENOVESIO Giovanni
- Consiglieri nominati dal Comune di Villafranca: TESIO Dario; GENNERO Luigi
- Consiglieri nominati dal Comune di Vigone: GEUNA Melchiorre; OGGERO Gianpiero
Santuario della Madonna del Buon Rimedio
Situato nella frazione Cantogno, l'antica chiesetta che fu già parrocchia, è oggi trasformata in un venerato Santuario, dedicato alla Madonna del Buon Rimedio, meta di frequenti pellegrinaggi da parte di ferventi devoti che provengono da ogni dove (molto importante la Festa della Madonna del Buon Rimedio, la seconda domenica di ottobre). Nella frazione si trovano inoltre i resti dell'antico Castello che conserva la più antica pittura murale presente in Villafranca, databile intorno ai primi decenni del 1200.
Santuario di Cantogno - la Pietà.
La Pietà, ora conservata all’interno del Santuario, originariamente era una tipica pittura murale, risalente, presumibilmente alla seconda metà del 1400. E’ stata recuperata parzialmente, in epoca successiva con perdita di una parte del dipinto originale. La rappresentazione della Madonna reggente il Cristo Morto è molto diffusa nel Piemonte del quattrocento e nella vicina Provenza. Alcuni studiosi, non sempre concordi, hanno rilevato le notevoli identità, sia di fisionomia sia di esecuzione, tra il Santo raffigurato nella Pietà conservata nel Santuario di Cantogno ed il San Giuseppe dell’adorazione della Parrocchiale di San Giovanni.
Torre del castello
Sito in Frazione Cantogno, il Castello rappresenta una delle costruzioni più antiche di Villafranca di cui oggi, purtroppo, restano soltanto alcuni resti. Sono ancora visibili l'arco del vecchio ponte levatoio e alcuni affreschi interni risalenti ai primi decenni del 1200. Le tre figure rappresentano il crocifisso, San Pietro e San Paolo ( il grave deterioramento permette appena di individuare le figure dei due santi mentre quella del Crocifisso è la meglio conservata).